10/10/13

FARE LA SPESA

Fare la spesa diventa ogni giorno più difficile. E non solo perché tutto è diventato carissimo; non solo perché non hai mai il tempo tu entri in ufficio alle otto esci alle undici di sera lavori anche i weekend e ci vorrebbe un carrello-robot che conoscesse i tuoi gusti e ti riempisse il frigo di cocacola e la dispensa di nutella. È che io non trovo mai niente al supermercato. Mi perdo via confusa dalla quantità di roba da mangiare, detersivi e bibite sugli scaffali. Per questo da anni faccio la spesa in un super mercatino sotto casa: sono single, posso permettermi di non affidarmi alle confezioni famiglia.
























Mi piaceva da matti perché era un po’ bulgaro: entravi con l’idea di comprare la bresaola e i biscotti al cioccolato e uscivi col salame e i plum cake perché quel giorno la bresaola e i biscotti al cioccolato non c’erano. Volendo filosofeggiare era un’ottima scuola di rinuncia, un buon allenamento antispreco. Quel che c’è c’è, bisogna sapersi accontentare. E per me ogni volta era una sopresa dover cambiare idea sul da farsi.

Poi hanno incominciato ad apparire, sugli scaffali, le bottiglie di champagne, quello vero. Le mozzarelline di bufala, quelle buone. Il sushi, fresco ogni giorno. Gli yogurth di mille gusti. La Cocacola Zero. Aiutoo, volevo resistere resistere resistere e invece hio dovuto cedere all’ennesimo negozio un po’ fighetto, solo per motivi logistici.

Un mese fa, poi, hanno anche fatto i lavori di ristrutturazione. Ora c’è il parquet per terra e fare la spesa, come dicevo all’inizio, è sempre più difficile. Ieri, per esempio. Entro, prendo il carrellino, quello senza monetine tanto non ho mai spesone da carrello station wagon, e m’avvio nella prima corsia. Non capisco dove mi trovo, gli shampoo sono da una parte, le creme non sono lì, improvvisamente i biscottini, lì vicino il pollo arrosto.

Incomincio la caccia al tesoro, sentendomi un’emerita cretina. Finché non incontro un’anziana signora completamente persa: mi sembrava di essere in un videogame dove devi superare prove e indovinelli e magari salvare anche qualcuno. Decidiamo che l’unione fa la forza: io sono riuscita a trovarle il mele d’acacia (ma non della solita marca, quella chissà dov’è finita) e i guanti di gomma che stavano appesi, ovvio, sopra il pesce (io me li ricordavo vicino agli stracci della polvere che comunque ora stanno vicino alla pasta). Lei, di contro, mi ha trovato le uova, vicino alla carta igienica, e il grana, facile, sta vicino al burro. Fatto sta, amiche subito. E ci siamo divertite un sacco a cercare l’introvabile, a risolvere i quiz, a provare a capire cosa passa nella testa dell’organizzatore logistico di un supermercato di quartiere.
Dove gli scaffali sono altissimi (se non c’ero io che mi sono arrampicata alla Walter Bonatti per recuperare un barattolo di senape la sciura non so come avrebbe fatto, non essendo munita né di scaletta né di corda) e tutto introvabile.

Che lo facciano per intrattenere i clienti con un divertissement a sorpresa? Che sia un gioco a premi? In realtà questa cosa fa perdere un sacco di tempo. A dire il vero io mi sono divertita e quando ci tornerò mi rimetterò in gioco sapendo che probabilmente farò casino e mi dimenticherò i fondamentali che mi hanno fatto andare lì.
Ps al cinema in questi giorni c’è la pubblicità della Lidl. E’ orrenda. la gente parla solo dando i numeri e alla fine capisci che si tratta di un concorso: devi indovinare quanto costa la spesa contenuta in un certo carrello. Se azzecchi vinci la spesa gratis per tutta la vita. Un po’ come i fagioli di Raffella. Beato chi azzecca il numero. Buona fortuna.


29/07/13

SALDI SALDI SALDI ... ...

… tanti saldi
beati siano i saldi
i beneamati saldi perché
chi ha tanti saldi vive come un pascià
e a piedi caldi se ne sta
… prendi, spandi e spendi
… saldi, saldi, saldi, toccasana
di questa quotidiana
battaglia della grana perché
chi ha tanti saldi vive come un pascià





Veramente ho fatto un plagio: la canzone è “Soldi, soldi, soldi” e per chi non lo sapesse (i giovanissimi immagino)  l’ha scritta Gorni Kramer insieme a Pietro Garinei e Sandro Giovannini nel 1959. Guardando su Internet scopro che l’hanno cantata un po’ tutti: Betty Curtis nel 1962 (c’è un video strepitoso che fa venire nostalgia per come si facevano bene le cose negli anni Sessanta con due lire, ma andatevi a vedere quello di Renzo e Luana che non so chi siano ma hanno un’orchestra stile Raoul Casadei); Ivan Cattaneo negli anni Ottanta; Mina (che la inserisce in un Medley nel 1974 a Gran Varietà, insieme a Walter Chiari (cercatelo in rete fa schiantare); Sophia Loren (canta benissimo, non lo sapevo, ascoltatela con le vostre orecchie); gli Articolo 31 hanno preso solo il titolo per fare una denuncia sociale e Renato Zero canta solo “Soldi” non moltiplicati per tre (non c’entra niente ma era così per dire).
Come sempre mi perdo via, e dovrei tornare all’argomento moda.


















È che volevo parlare di saldi che con la moda c’entrano eccome e saldi e soldi sono sempre legati a filo doppio. Perché per partecipare ai saldi ci vogliono i soldini, magari non tanti. Perché con i saldi si risparmiano i soldi. E perché basta cambiare la O e metterci una A perché i soldi diventino saldi.
Ho usato la parola partecipare non  a caso perché i saldi sono un gioco o una gara, dipenda da come uno li vive. Per me sono un gioco, se a qualcuno interessa sapere dove mi metto io.

Ma ci sono delle pazze in giro che si allenano per settimane come se dovessero partecipare alla maratona di New York: armate di smartphone o macchina fotografica passano al setaccio tutti i negozi, scattano l’oggetto del desiderio e il relativo cartellino del prezzo così potranno fare il confronto senza farsi imbrogliare. Una volta fotografato tutto quello che vorrebbero comprarsi, stampano e appiccicano si grandi fogli appesi al muro e costruiscono la mappa per l’inseguimento. Se siete appassionati di thriller, spy story, polizieschi, serial killer e cose così sapete che è il sistema che usano gli esperti investigatori e quelli della Cia e FBI per centrare l’obiettivo o catturare il nemico pubblico. Ecco le saldi addice sono come agenti segreti, e vanno a colpo sicuro. Mica come me che vago per negozi visto che mi piacciono tutti. Soprattutto mi piace ravanare con le mie manine nelle ceste delle occasioni tutto a 1 euro e adoro spiare cosa comprano le altre donne. Io la butto su informazione professionale di carattere sociologico, in realtà sono curiosa come una scimmia e mi piace farmi un po’ i fatti degli altri (per fortuna sono smemorata, quindi una cosa entra in un orecchio o in un occhi, me la godo e poi me la dimentico).
















I dati di quest’anno dicono che ogni italiano ha a disposizione per l’edizione saldi estate 2013 100 euro. Non sono molti, ma se si sa ottimizzare con 100 euro puoi portare a casa una sacchettata di roba. Infatti solo Zara e H&M sono pieni come uova, con la gente in coda ai camerini e alle casse (sfido, occhiali bellssimi a 3 euro, T-shirt a 2, camicie a 9, scarpe a 10 e via scontrinando). Non sono qui a fare l’imbonitore e nemmeno a dare regole del gioco. Mi fanno morire dal ridere i quotidiani che parlano di politica, guerre, economia, femminicidio e poi ci infilano il pezzo sui saldi che tutti gli anni è sempre lo stesso: il presidente dell’associazione dei commercianti che si dice preoccupato ma speranzoso, l’esperta di shopping che consiglia come fare, i negozianti che ti dicono di stare attenta agli imbrogli (ma se io voglio comprarmi un piumino dell’anno scorso anche se è luglio perché non posso farlo?). L’unica cosa che è cambiate è che non pubblicano più le foto delle coda davanti alle vetrine. Ai bei tempi precrisi erano code chilometriche, c’era gente che ci si metteva, in coda, alle cinque della mattina e le associazioni di via offrivano cappuccio e brioche ai loro eroi dello shopping. Ora l’unica coda che mi ha spaventato è quella davanti al temporary store della Coca-Cola perché ti fanno la lattina personalizzata con il tuo nome. Non credevo ai miei occhi: ho fatto un calcolo veloce e l’ultimo della fila ci avrebbe messo più di tre ore per avere l’oggetto di culto. Immagino siano collezionisti e che nessuno avrà il coraggio di bersela la cocacola Francesca o Aldo. Devo dire che Michi Coke ci sta bene. Anzi per una volta dovrei usare la K: Miki-Coke. Potrei registrare il nome, chissamai cone non possa fare tanti soldi, soldi, soldi da spendere in saldi, saldi, saldi…

Ps questa volta il pezzo di moda è un post scriptum, scusatemi davvero è che non riesco a trattenere il flusso dei pensieri. Ecco qui il compitino giusto che ci si aspetta da una esperta (lo dicono gli altri) di moda. Cosa comprarsi.
    •    Approfittare dei saldi per un acquisto impegnativo e griffato, tipo il cappottino che non passa di moda, i sandali che userai tutti i giorni ma costano troppo, le camicie che si mettono anche d’inverno.
    •    Non farsi prendere la mano e comprare così a quintalate. Però se vi piacciono molto certe magliette che per voi sono un passepartout riempitevi le braccia e agite.
    •    Io a ogni saldo mi compro un paio di jeans, che non scadono mai. Per me è un porta buono ma il risultato è un armadio impossibile (non so resistere, e comunque se devo fare una media li metto cinque giorni su sette).
    •    Fate la vostra bella coda il primo giorno solo se siete davvero interessate a qualcosa di preciso in quel negozio. Altrimenti aspettate l’ultimo giorno che i prezzi si abbassano ulteriormente e potete fare davvero gli affari (fermo restando che se avete un grande sogno potete andare nei negozi anche dieci giorni prima dell’inizio ufficiale delle grandi svendite: lo sconto te lo fanno comunque).
    •    Se chiedete a me io mi sono già comprata un paio di sandali di Isabel Marant, una borsa di lino di Too Be, un paio di jeans Replay, due paia di occhiali e una serie di camicie da H&M, un gilet di pelle di Marni e sto facendo il filo a una tracolla di Givenchy che però anche al 50% costa troppo, mi sa che questa volta lascio. E già così ho superato il budget di un bel po’. Vorrà dire che starò a dieta, il che non è mai male.

03/07/13

UNGHIATE

Direi che posso dirlo senza tabù, come da promessa (nomen omen): ho delle mani che fanno schifo. O meglio di per sé sono anche delle mani carine: dita lunghe, poche macchie nonostante l’età, mi manca l’articolazione del pollice (un amico ortopedico mi ha detto che l’umanità si divide in due: chi ce l’ha e chi non ce l’ha questa articolazione) quindi io quando devo indicare il numero quattro abbasso l’anulare e sembra che stia facendo le corna. Ho ereditato questa mancanza da mia nonna, sembra sia genetica. Non è un gran handicap, non sapevo nemmeno che si potesse piegare il pollice finché qualcuno me lo ha fatto notare. Ma non cianciamo che come al solito mi perdo via nei meandri dei discorsi che non c’entrano nulla. Sulle mani ci stanno le unghie. E le mie sono orrende. Anche quelle dei piedi, per inciso.

Da che mi ricordo le ho sempre sgranocchiate, con grande piacere. Mia madre (che se le mangiava fino alla falange) ha fatto di tutto per farmi cambiare abitudine. Dal liquidino amaro che faceva veramente schifo ma non mi ha mai fermata, ai guantini bianchi che erano scomodissimi per scrivere visto che la stilo scivolava via. Mi è sempre piaciuto starmene con le mani in bocca. E tutt’ora è atteggiamento irrinunciabile quando leggo o guardo la tivù. Fa un po’ schifo, lo so, ma non posso farne a meno. Spiegazione psicologica: forse voglio autoeliminarmi mangiandomi, forse voglio sbranarmi prima che lo faccia qualcun altro così, giusto per essere sempre padrona della mia sorte. In realtà è che ho un buon sapore, mi piace mangiare sbocconcellare pezzettini di Michi. E non c’è bisogno di cucinarmi: sono buona così, al naturale. Come il sushi. Questa lunga premessa per spiegare perché non ho mai messo lo smalto: non me lo posso proprio permettere. E, detto fra di noi, mi fa anche un po’ schifo. Tanto per iniziare leggetevi la definizione di unghia sul dizionario. Io ho aperto a pag. 1906 il mio Zingarelli (anno 1996) e così scrive: Unghia (si può dire anche ogna, ugna o ungola, che orrore), produzione cornea lamellare, caratteristica dei Vertebrati terrestri, che riveste l’estremità distale del dito e ha compiti di protezione, appoggio, difesa e offesa, a seconda della specie animale che si considera. C’è anche un’unghia ippocratica (allargata e abnormemente convessa). Ad artiglio (adunca e appuntita). Vedete che faccio bene a eliminarle? Sono oggetti orrendi. Poi non sapevo che l’unghia dello scalpello fosse il suo taglio, quella dell’ancora un uncino, quella dei fiori la parte decolorata del petalo all’attaccatura con il talamo, quella dei libri la sporgenza della copertina…
Così, tornando alle unghie delle mani, escludo le mie dal discorso che segue. Si dirà che odio la mania dei nails per invidia. I nails erano i cosiddetti in gergo centri estetici per mani che impazzavano a New York e qui non c’erano ancora. Le amiche americane ci passavano le ore almeno una volta la settimana. E a me venivano sempre in  mente le manicure dei barbieri, signorine che passavano la loro vita a curare le mani maschili nella tana del lupo. Ora anche da noi impazzano i Nail’s Studios o Nail Lab e via dicendo. Su internet basta cliccare e-nailstore.com per rendersi conto della follia: se entro nella spirale delle unghie colorate non ne esci più. Tornando al concetto di invidia, certo che vorrei avere belle unghie, ma non è la mia storia (mi strappo persino quelle dei piedi). E a me piacciono di colore naturale (mi sfogo con i rossetti).
Trovo orrende certe unghie color salvia grigio verde che sembra che ti sia schiacciata le dita nella portiera della macchina. Per non parlare di quelle nere, molto dark (hanno di buono che puoi non lavarti le mani per settimane e nessuno se ne accorge), o blu livido. Sarò noiosa, ma se smalto deve essere che sia rosso, anche scuro, ma red. Vi sembra serio parlare con una che ha le unghie gialle o turchesi? Magari di dieci colori diversi. Le più tremende sono quelle che si fanno i disegnini sulle unghie. Tanto per incominciare per farci stare un disegno completo bisogna che le suddette unghie siano lunghissime, e già fanno orrore.
Le trovo bellissime solo sulle donne di colore perché solo loro riescono a stare bene con certe cose (le stampe africane, per esempio, i capelli rasta o rasati). Su di loro tutto è plausibile, su di noi no. Non chiedetemi perché: è che sono loro la razza eletta (corrono più veloci di tutti, non servono altre spiegazioni) quindi possono permettersi di vestirsi come gli pare. E di dipingersi le unghie come vogliono.
E non sono tremendi quegli smalti che si chiamano Magnetic? L'effetto è un metallico cangiante, sembra la corazza (credo si dica esoscheletro) di certi insetti. E' come andare in giro con dieci ( o venti se si considerano anche i piedi) scarafaggi sulle dita. Che schifo. Un'altra cosa: non sopporto mani sì e piedi no o viceversa: se smalto deve essere, allora che sia totale. E tutto dello stesso colore. Ottimo osservatorio sono i tram e gli autobus: inevitabile che ti caschi l'occhio sulle mani aggrappate ai tubi salvavita. E noto con orrore la moda delle unghie lunghe tagliate quadrate con la punta bianca.

Detto questo vi sarete convinti che non sono affatto invidiosa delle unghie stracurate fino all'ossessione. Mi sembra una gran perdita di tempo, anche se per molte il gesto della pittura è molto rilassante, come tagliare la verdura o sgranare i piselli. A me, rimanendo in ambito faccende domestiche, piace lavare i piatti. E immagino che questa buona azione sia assolutamente deleteria al fine di avere belle mani.

Ps: mi hanno sempre fatto ridere le scene di film in cui lei seduta sul letto o alla scrivania si smalta le unghie (magari di rosa). E mi dispiace che per indicare una donna sciocchina la si sia sempre ritratta mentre si dipingeva le unghie, dei piedi però, o con la limetta in mano e la cornetta del telefono fra spalla e orecchio. Chissà perché.

12/06/13

Questa volta sono senza vergona.

E mi faccio pubblicità. Partiamo da lontano: siamo sicuri di essere senza tabù? Io che mi sento così libera credo di averne una lista lunga così, a partire dal sesso (raccontato, come ho già avuto modo di dire il sesso si fa ma non si dice) fino ai soldi, di cui non amo parlare. Tabù caduto miseramente visto che di questi tempi non si fa altro che discutere dei soldi che non ci sono. Se proprio devo mi piace parlarne solo per segnalare offerte speciali irrinunciabili. Che riguardano  tutto: dalle mozzarelle buone alle scarpe, dalla vacanza ai libri. Ma sicuramente un tabù che non riesco a superare è quello del nepotismo: odio raccomandare sorelle, cugini, amici, figli di cugini e amici e via discorrendo. Non posso proprio, è più forte di me. Raggiungo l’assurdo facendo finta di scordarmi che lavoro fanno e che magari sono i migliori nel loro campo. Figuriamoci se sono capace di vendere me stessa. Invece questa volta lo faccio, e non me ne vergogno nemmeno un po’. Giovedì 13 giugno esce in edicola “Gioia” tutto nuovo.
Sto facendo della pura pubblicità. Perché ci credo. E perché ci credo? Perché ci sto lavorando. Sono stata fuori dai giornali, se non come collaboratore saltuario, per quasi un anno. Punto d’osservazione ottimale per chi fa il mio mestiere e i giornali li legge per vedere cosa fanno gli altri per poi fare qualcosa di diverso (io) o per copiare (molti). Comunque sia perdendo lo scopo principale di leggere un giornale che è, appunto, leggerlo. E non solo sfogliarlo, guardarlo, sbatacchiarlo da una borsa all’altra per poi buttarlo nel cassonetto (della carta, ovviamente, non ci sentiamo così trasgressivi da mettere i giornali nel contenitore del vetro). Così da un annetto ho instaurato un rapporto speciale con i giornali: non più da addetta ai lavori ma da lettrice, e visto questo nuovo ruolo li leggo dalla prima parola all’ultima. Sono pieni di cose interessanti e anche di scemenze. Tutti, nessuno escluso. E se le cose interessanti superano le scemenze trattasi di un buon giornale. Ma veniamo a noi. “Gioia”, come ho detto, è tutto nuovo. Io ci sono arrivata poche settimane fa in corsa. Sono riuscita a metterci qualcosa di mio ma era già bello così, senza che io ci mettessi mano. Comunque questo è per dirvi di comprarvelo per qualche settimana perché è davvero un bel giornale, nonostante me (dimenticavo, faccio il vicedirettore moda).

 È scritto bene, con una grafica divertentissima, pieno di idee questa volta sì da copiare. Ci lavora della gente davvero brava: qualcuno lo conosco da anni, moltissimi non li avevo mai visti prima. Io sono tornata a divertirmi lavorando, che di questi tempi è il vero lusso. E sono convinta che si divertirà anche chi leggerà, perché le persone sensibili queste cose le sentono. Bene, mi sono fatta pubblicità. Non l’ho mai fatto prima e dubito che mi ricapiterà. Ma io qui faccio un po’ quel che mi pare. Senza tabù, appunto. E superare quello dell’autopromozione per me ha dell’incredibile. Quindi se ci metto la mia faccia e la mia parola potete fidarvi.


Baci a tutti

Gioia è un giornale del 1937. Mi sono letta alcune interviste, delle inchieste e cose così: strepitoso. Come siamo cambiati, ma com’eravamo belli. Soprattutto eleganti.

Pps: Non è male di questi tempi lavorare per un giornale che si chiama gioia, non foss'altro per i significato della parola.
Leggo dal dizionario:
GIOIA
sentimento di piena e viva letizia
persona, o cosa, che è causa di felicità o di soddisfazione
pietra preziosa
senso di contentezza, di piacere.
Felicità, allegria
Persona preziosa per le sue qualità
Appellativo affettuoso
cosa posso volere di più?

28/05/13

Specchio specchio delle mie brame...

Qui la questione non è sapere chi è la più bella del reame che comunque non sono io; qui il fatto è ammettere che non c’è niente da fare: quando si passa davanti a uno specchio lo sguardo è attratto. Diventiamo tutti allodole, anche chi nega. È come se fosse un riflesso incondizionato. Che si tratti di un vero specchio o di una vetrina impossibile che il primo istinto non sia quello di girarsi e di guardarsi, magari senza vedersi. Non dico che lo si faccia sempre per edonismo.

 Di certo io tutte le volte che lo faccio poi ci vedo qualcosa che non mi piace. Io tutta intera, per esempio. Ho sempre qualcosa di sbagliato. Sarà che in casa non posseggo uno specchio dalla testa ai piedi quindi mi vedo solo a fette. Per avere una visione d’insieme devo andare in ascensore, il che non è praticissimo. Soprattutto per i miei vicini di casa. C’è da dire un’altra cosa a questo proposito: una parte del mio guardaroba sta nel solaio, quindi mi tocca andare su e giù molto spesso e malvolentieri. Ultimamente ho cambiato un po’ l’assetto.

E’ successo quando, in mutande, ho incontrato un mio anziano vicino di casa. E’ andata così: mi sono vestita di tutto punto, con camicia e giacca molto executive, scarpe stringate e calzettoni. Ma i pantaloni stavano lassù. Per non perdere tempo ho preso il borsone del lavoro e sono salita in solaio. E chi t’incontro per le scale? Il signor Carletti che, gentilissimo come al solito, buongiorno e quattro chiacchiere. Io ho cercato in mille modi di nascondere le gambe e con gran nonchalance visto che il mio interlocutore sembrava non accorgersi di nulla, ho fatto finta di niente. Alle sei del pomeriggio rientro e chi t’incontro? Il signor Carletti. Buonasera buonasera e mi scusi per stamattina che ero un po’ in mutande. E lui: ma si figuri, noi qui siamo abituati a vederla stravagante ma sappiamo che lavora nella moda, pensavo che si usasse così. Sono rimasta di stucco. Avrei potuto tranquillamente uscirmene in mutande e passare inosservata. Devo pensare a altre strategie per farmi notare.

E, tornando allo specchio dell’ascensore, lo uso solo vestita di tutto punto, quando non c’è più niente da fare perché sono già fuori casa e non c’è errore di look che tenga per farmici tornare e scaravoltare tutto. Buona la prima, per quel che mi riguarda. Forse è proprio perché davanti allo specchio ci passo pochi secondi visto che non ne ho uno serio che quando ne vedo uno mi casca l’occhio: è come se mi notassi per la prima vota in tutta la mia altezza (e larghezza). E in bagno, direte voi? Ho solo specchi vecchi ereditati dalla famiglia. Bellissimi non c’è che dire ma sono un po’ bronzati, pieni di macchie del tempo. Non capisci mai il colore della pelle e ti vedi a chiazze. Non possono fare testo. Per me vanno bene, visto che non mi trucco e adoro il rossetto sbavato. Ora che ci penso uno specchio lungo c’è, è quello sulla porta in cucina ma è diviso a scacchi quindi ti vedi come in un caleidoscopio il che non è esattamente funzionale. Ora che mi ci fate pensare forse la stravaganza di cui tutti mi accusano non dipende da un’attitudine personale ma da una totale mancanza di coscienza di un sé estetico dettata da un problema reale con gli specchi. La cosa non è ereditaria visto che quando abitavo in famiglia c’era un grande specchio in corridoio a uso di tutti noi, mamma, babbo e sorelle. Mia madre era formidabile davanti allo specchio: faceva le prove di camminata, tratteneva il respiro per sembrare più magra, si cotonava i capelli, faceva certe facce quando si truccava. Ci passavo le ore davanti allo specchio con lei, solo come spettatrice. Poi ho smesso. Ma se sono in giro con il mio iPad fuori dalla custodia non resisto e mi fotografo. Autoritratti un po’ scemi ma che mi divertono moltissimo.

30/04/13

LA CINA E' VICINA? AIUTOOOOOOOOOOOOOOOOO

Facciamo i giornalisti seri, e partiamo dai fatti. Il 10 aprile leggo come tutti i giorni "la Repubblica", il mio giornale preferito. E cosa trovo? Sparato a caratteri cubitali "La Cina è vicina", con tanto di giochino grafico con una grande C che s'incastra nel resto del titolo.
Vuol dire che ci hanno creduto, che dopo trent'anni dallo sbarco della Biagiotti laggiù (e tutti i giornali titolarono nella stessa maniera sicuri di essere molto brillanti) c'è ancora qualcuno che crede di fare lo spiritoso e, soprattutto, di avere un'idea strana e nuova scrivendo il suddetto titolo. Mi rendo conto che spesso si è di fretta, che a volte non c'è l'illuminazione, ma come si fa? Comunque da allora colleziono cine vicine da tutti i giornali: ho centinaia di ritagli che ho deciso di cestinare per evitare la nausea. E cosa succede? Nemmeno una settimana dopo, il 15 aprile, ecco che Repubblica strilla ancora "manager, la Cina è diventata più vicina". Ho vomitato e cestinato, non voglio più saperne.
E, visto che siamo sempre più lontani dalla fantasia, ecco qualche suggerimento per titolisti a corto di invenzioni (ovvio che quelli del Manifesto e del Vernacoliere non hanno bisogno di vademecum).


La Cina in cucina, per un articolo sui ristoranti mandarini.

La Cina è piccina, per promuovere un tour di una settimana laggiù.

La Cina macina, per sottolineare la laboriosità locale.

La Cina vaccina, per raccontare della sanità.

La Cina fa la vocina, per parlare dei dissidenti di cui qui non sappiamo mai niente.

La Cina è una fucina, per descrivere il boom industriale.


La Cina è marcina, per denunciare la corruzione locale.

Cina & forcina, per dare gli indirizzi dei parrucchieri cinesi che ti fanno lavaggio, taglio e piega a otto euro (le amiche si portano da casa shampoo e balsamo perché non si fidano, ma ci vanno).

Cina porcina, per un'inchiesta sul sesso.

Cina mancina, per avvertire chi ha intenzione di fare business che dei cinesi non ci si può fidare, sono furbissimi.

La Cina ha il mal di pancina, per spiegare come la globalizzazione ha portato anche là il junk food con tante conseguenze dolorose (nel vero senso della parola) per la dieta una volta sana fatta di riso e poco altro.

La Cina fa la doccina, visto che con il boom economico sempre più cinesi, finalmente, hanno il bagno in casa.

Cina micina, per spiegare la tattica di allettante avvicinamento a ogni dove (i cinesi si stanno comprando tutto, dall'Africa ai bar nostrani).

La Cina fa la focaccina, sempre più pizzerie sono in mano ai cinesi.

Cina: ecco la decina, vale per qualsiasi top ten, musica, ristoranti, politici, attori, oggetti dei desideri, consumi, uomini ricchi, donne belle, potenti, luoghi...

Cina Muccina, se il regista dopo Hollywood ha intenzione di fare danni anche a Hengdian.

Cina arancina, un pezzo di moda se va di moda l'arancione.

Cina aureomicina, sugli scandali della sanità.

La Cina vuole la bollicina, sulla mania dei nuovi ricchi cinesi per lo Champagne (o la Coca-Cola).

Cina autofficina, su un altro boom, quello delle automobili, dopo anni di bicicletta è una vera rivoluzione.

Dalla Cina la canzoncina, se mai arriverà un tormentone dance che farà impazzire il web.

Cina: carneficina, sperando di non doverlo usare mai.

La Cina mette la coroncina, reportage dal primo concorso di bellezza cinese.

La Cina fa la crosticina, ricette di cucina per lasagne copiate.

La Cina è felicina, mai troppo, però, visto che è una dittatura.

La Cina mangia la fettuccina, per un ricettario di pastasciutta.

La Cina lancia una freccina, così, giusto per far finta di volere buoni rapporti con i paesi vicini.

La Cina usa la forbicina, per spiegare i piccoli tagli agli stipendi già da fame o per parlar bene dei sarti locali che sono bravissimi.

La Cina diventa un'iconcina, scegliete voi di cosa.

La Cina tira la cordicina, ovvero ci siamo rotti le palle di lacinaèvicina.

02/04/13

L'insostenibile pesantezza di certe parole

Io non ce la faccio proprio a sentire certe cose. Liberi tutti, ovvio, di esprimersi come vogliono.
Ma le stonature fanno male alle orecchie

Parola numero uno: bentrovati
Ma che cosa è successo ai conduttori televisivi? Come mai iniziano la trasmissione con "bentrovati"? Non è un saluto, non è un invito, non è niente. Non è sempre, comunque sicuramente più, elegante signore e signori buonasera (o buongiorno buonpomeriggio buonanotte)? Lo sappiamo, in questi tempi di crisi c’è poco di buono ma mi chiedo: se mi dici bentrovato si presuppone che io mi sia perso da qualche parte. Il che è anche vero ma non mi va di farlo sapere a tutti. E non è che le notizie del Tigì o le risposte delle interviste mi aiutino a trovarmi, anzi. Nel novanta percento dei casi mi confondono di più: o m’incasinano le tante informazioni, o le risposte non sono all’altezza o il mondo va a rotoli e tu ti preoccupi e ti riperdi. E poi io vedo te ma tu non vedi me. Come fai a sapere che sto bene, che ho, come diceva il nonno, una bella cera? lascialo dire al me, tuttalpiù, se ti trovo bene. E come la mettiamo dopo la pausa pubblicità (sempre il nonno la chiamava réclame, magnifica parola)? Benritrovati, mi dicono. E qui convengo: mi sono persa correndo su e giù per i tornanti a bordo dell’ultimo bolide, mi viene nostalgia degli assorbenti visto che fra un po’ sarò in menopausa, e mi ritrovo prigioniera del muco (adoro questo spot dell’assurdo) quindi benvenga qualsiasi principe azzurro che mi ritrovi, me ne liberi (dal muco) e mi porti via. Però mi sento di dissentire. Quindi buonanotte.

Parola numero due: quantaltro
No comment. Dico solo: smettetela.

Parola numero tre: anche-no (e la variante anche-sì)
O è sì o è no. D’accordo, è un rafforzativo. E faccio ammenda: i ho usato anche no persino in uno strillo di copertina. Ma non lo usava nessuno, è stato un po’ come quando ho scritto che il tubino maculato sta bene a tutti. Ho informato su una tendenza, in molte ci hanno creduto e ho fatto danni. Me ne scuso, starò più attenta in futuro. Ma anche-no, non si può proprio sentire, e dire.

Jonathan Pierini, "Anche dire italiano non ha più molto senso", Poster 70x100 cm, stampa digitale


Parola numero quattro: tantaroba
Normalmente ti dicono che sei tantaroba e tu pensi subito al tuo peso e alla ciccia, invece vorrebbe essere un complimento, vuol dire che sei intelligente. Oppure ti dicono che sei tantaroba, quindi troppo per qualsiasi uomo che s’intende cerebroleso quindi mai alla tua altezza. La senti spesso, tantaroba, all’uscita del cinema. E non capisci mai se il film gli è piaciuto. Per me tantaroba è quello che ho in casa, visto che sono un’accumulatrice, e nei miei armadi, vergognosi (qui vi faccio una foto così, giusto un assaggino). L’unica tantaroba che mi piace sta su una tavola imbandita con ogni bendidio.

Parola numero cinque: allevolte
Lo usa qualcuno al posto d cioè. Mi piaceva di più cioè.

Parola numero sei: dettociò
(con le varianti ciodetto e dettoquesto)
Mi rendo conto che nella lingua parlata non c’è il punto e a capo però non serve tutte le volte ribadire il concetto in questo modo: qualsiasi discorso sembra un preambolo, e non si arriva mai alla conclusione. O, peggio, il finale sarà sempre deludente se il ciò detto, in realtà, è il succo del discorso. Dettoquesto, non parlo più.

ps credo di essere l’unica a conoscere una persona che dice ancora "ciao bella gioia" (era di moda nel 1973 e lo sa chi ricorda Cochi e Renato ne "Il Poeta e il contadino"); anche se ci piace tanto usare l’inglese (non a me ma a tutti quelli che incontro) basta con questo less-is-more, ma anche con never-say-never (che mi piace un sacco): io non mi metterò mai una pinza in testa, per esempio. E lo sottoscrivo. E quando ti dicono sta’ serena (la variante atroce è tranqui che si legge tranchi)? Divento pazza. Ma mai come quando leggo sui giornali che la Cina è vicina: negli ultimi vent’anni sarà successo migliaia di volte. E allora, qui lo dico e qui lo nego come fanno in molti ma non io, vi saluto con un ciao cara